Riflessioni sul Partito Democratico e sulle ragioni di un impegno politico attivo

Qualche anno fa, in un’Agorà democratica (che si sono dimostrate un ottimo esercizio di stile), ho sostenuto che “Sin da quando abbiamo fondato insieme il Partito Democratico, ho avuto la sensazione che l’unico carattere identitario che realmente ci abbia contraddistinto – oltre all’ovvio richiamo ai valori della resistenza e della costituzione italiana – sia stato l’europeismo (contrapposto al populismo). E questa involuzione identitaria mi è sembrata sin da subito un limite enorme al nostro progetto politico in quanto l’europeismo in sé, senza una visione “ideologica” della società che si vuole perseguire, non può essere assurto a valore in quanto tale. Il PD è figlio di una stagione in cui si teorizzava che le ideologie erano finite, che servivano partiti aperti, liquidi, senza strutture. A distanza di anni credo che si possa affermare senza timore di smentita che tutte queste idee erano sbagliate. Un partito non ideologico è una contraddizione in termini, atteso che un’ideologia è un tentativo più o meno coerente di dare risposte alle ampie problematiche connesse all’organizzazione desiderabile o ideale della società. Affermare il contrario significherebbe negare una verità empirica, abbracciando un’errata concezione post-ideologica della società basata per lo più su ignoranza storica, pregiudizi ed egoismo classista.”

Ho vissuto questi anni nella comunità del Partito Democratico acquisendo una progressiva consapevolezza della non sincronia tra pensiero e prassi che può sintetizzarsi nel motto “pensare estremo, agire accorto”. Quasi tutta la mia militanza attiva, soprattutto all’interno di un partito come il PD, è stata segnata da continue riflessioni sul rapporto che corre tra potere e potenza, consapevole che se da un lato lo stanco riformismo ha determinato l’incapacità del partito di riconnettersi con la propria base di classe, dall’altra atteggiamenti estremisti potevano determinare l’incapacità per la classe in lotta di giungere al vertice delle istituzioni Statali.

Per provare ad affermare un’alternativa al capitalismo moderno in un contesto democratico, il calcolo delle forze e del rapporto di forza non può prescindere dagli interrogativi sullo Stato e sui mezzi di conflitto. E poiché in politica l’organizzazione fa la forza, è all’interno delle grandi organizzazioni politiche e nelle istituzioni in cui esse si estrinsecano che bisogna predisporre gli strumenti dell’intervento attivo per non lasciare al capitale il piano dello Stato. 

In un simile bilanciamento, il compromesso “pratico” che ho accettato in questi anni rispetto alle mie convinzioni ideologiche, è stato quello di far prevalere la tattica di partito sulla strategia di lungo respiro della lotta di classe, un tempo capace di sfidare l’egemonia borghese, oggi piegata dalla controffensiva globale del capitalismo moderno in grado di sottomettere le masse popolari alla logica di uno sfrenato individualismo consumista e concorrenziale. 

Le ragioni del mio attivismo in una forza politica come il PD derivano dunque dalla convinzione che soltanto attraverso l’organizzazione partitica le classi subalterne possono acquisire forza resistendo al declino; d’altronde lo spontaneismo dei movimenti e le insubordinazioni, non sono mai stati visti come un pericolo mortale per il sistema di potere capitalistico. 

In definitiva, se da un lato la causa con la quale ho identificato gran parte della mia vita sino ad oggi è sempre stata quella del socialismo, ho scelto di credere nella potenza dell’organizzazione ritenendo più utile stare in una grande formazione politica dalle pratiche ambigue, piuttosto che in una piccola dalle idee chiare ma destinata a lasciti di testimonianza.

Ciò detto sulle ragioni del mio impegno partitico rimango convinto che, al netto delle trasformazioni avvenute nella moderna società capitalista, la guerra sia sempre la stessa e si combatte nel campo della lotta di classe, oggi trasfigurata nello scenario impersonale e impolitico di uno scontro di civiltà. 

La maggiore difficoltà che ho vissuto in questi anni è stata quella di coniugare l’impegno politico attivo con la consapevolezza che, anche nei partiti della sinistra (soprattutto nel PD), sia in corso da anni un’involuzione identitaria che porta all’occultamento degli antagonisti di classe, riducendo questi ultimi a problemi “quantitativi” di diseguaglianza ed esclusione sociale. Credo convintamente che un simile approccio, lungi dal portare ad una pacificazione sociale, normalizzi una violenza estrema che è la misura del moderno capitalismo globalizzato.

Il Partito che ho conosciuto, nel vuoto valoriale a cui si è condannato perseguendo l’idea di un partito “leggero”, è stato in grado di mutare pelle secondo le necessità del momento in una sorta di vero e proprio “populismo democratico” – da Bersani a Renzi, da Letta a Schlein – usurpando il nome della politica servendosi di appellativi come “responsabilità”, “pragmatismo”, “stabilità”, disgregando qualsiasi capacità di ispirare grandi mobilitazioni e passioni collettive.

Credo convintamente che se la sinistra continuerà ad annullarsi nel nome di una sorta di alleanza sociale che appare una resa, se sacrifica la propria autonomia intellettuale, l’unica cosa che sarà in grado di ottenere sarà la perdita dei propri riferimenti naturali. Una resa che appare figlia di un galleggiamento opportunistico nel nome del giorno per giorno. Ci siamo per lo più accontentati di scommettere sulle debolezze dei nostri avversari; ci è bastato vincere qualche ballottaggio, conquistare qualche campanile, per tornare ad essere miopi: la metà degli elettori non vota e la forbice della disuguaglianza ha avuto un trend costantemente in aumento negli ultimi decenni (anche nei periodi in cui siamo stati al governo). I poveri assoluti sono in costante crescita, assieme al numero di persone in condizione di povertà relativa; ci sono nel nostro Paese milioni di lavoratori sfruttati e sottopagati che faticano a mettere insieme il pranzo con la cena, diffidenti nei nostri confronti perché le poche volte che siamo tornati nei luoghi di lavoro lo abbiamo fatto per celebrare l’epopea dell’impresa.

Un mare di umanità questa a cui oggi noi non diamo rappresentanza e dalla quale siamo percepiti come una lontana élite politica. Abbiamo smesso di vedere e di conseguenza non siamo stati più visti. Abbiamo reciso la connessione sentimentale con il nostro popolo, balbettando spesso luoghi comuni mostrandoci prigionieri di quanto rimosso e, forse, anche del nostro rimorso.

Se ciò e vero in generale il contesto territoriale del partito in Umbria, salvo alcuni straordinari momenti come la candidatura di Vittoria Ferdinandi a sindaca di Perugia (che per inciso è avvenuta grazie al coraggio della segreteria regionale di allora, che ha trovato la forza di commissariare il partito locale che avrebbe candidato un consigliere regionale poi passato a Forza Italia), o la riconquista della regione avvenuta grazie al progetto del “Patto Avanti”, fatica a fare eccezione.

Ciò che il recente congresso del partito ha ampiamente evidenziato è l’esistenza di una questione genetica caratterizzante il nostro “stare insieme”, legata ad una concezione errata della funzione del partito percepito da alcuni come volano di ascesa personale per un gruppo dirigente sempre più avulso dalla realtà, piuttosto che come strumento di lotta ed emancipazione per le classi subalterne. E nel conflitto che si genera per l’ascesa o per il mantenimento di rendite di posizione abbiamo dimostrato che tutto diventa lecito, che non esistono linee di demarcazione caratterizzanti lo stare insieme per una causa comune.

Nel corso degli anni, tra enfatizzanti primarie e cooptazione correntizia abbiamo messo da parte la capacità di discutere ed interpretare la società, preoccupandoci più delle dinamiche e dei destini personali dei singoli dirigenti, piuttosto che di rappresentare ed interpretare le istanze che la società ci poneva. La spasmodica ricerca di consenso ci ha poi fatto perdere di vista il confine che separa la democrazia dai populismi, basato sulla dialettica tra i corpi intermedi – con un ruolo di proposizione, guida e di indirizzo – e la formazione della volontà popolare.

In Umbria con la segreteria di Tommaso Bori abbiamo tentato di ricostruire una struttura degna di questo nome ed insieme a Sandro Pasquali – da materialisti dialettici quali siamo – immaginavamo di spendere le nostre energie per affermare un partito che, per utilizzare precetti storici della sinistra sempre attuali, doveva assume le sembianze di popolo in movimento. 

Ciò non è stato del tutto possibile perché anche in questa occasione, con l’avallo di lontani salotti romani, si è palesato il consueto istinto di autodifesa di una parte ormai logora della classe dirigente, unitamente alla paura del nuovo e ad una certa difficoltà di comprensione della società. In questo congresso abbiamo assistito ad una stucchevole ed ipocrita narrazione in cui esistevano i “buoni” ed i “cattivi”, raccontata per lo più da privilegiati di ogni sorta che non hanno esitato a scagliarsi contro “accordi” politici solo quando non erano loro al centro dell’accordo.

Ciò nonostante, in un periodo storico dominato dall’antipolitica declinata tanto in chiave “democratica” quanto “populista”, è necessario impegnarsi per invertire la rotta non rassegnandosi alla desolazione della dialettica interna al PD alla quale abbiamo assistito in questo congresso; e credo convintamente che una figura come quella Damiano Bernardini alla guida del partito possa davvero raccogliere con grande autorevolezza il lascito politico del percorso iniziato con la passata segreteria, e rafforzato da Sandro Pasquali.

Continuare con l’impegno politico attivo significa per me provare a fare la propria parte – piccola o grande che sia – per contrastare il pericolo dell’antipolitica intesa come umore reazionario di massa, a cui i partiti della sinistra (sia moderati che radicali) hanno troppo spesso prestato il fianco. La democrazia intesa come concetto puramente elettorale, vittima del consenso ed al servizio dello spasmodico bisogno di comunicazione, ha offerto il terreno fertile all’unificazione di populismo ed antipolitica. Una stagnazione in cui l’illusione del grande cambiamento mai avvenuto, ha alimentato una sempre maggiore alienazione della condizione umana, oggi imprigionata in un’idea estrema di individualismo che è necessario liberare recuperando una concezione comunitaria di persona.

Intendendo dunque l’attivismo come pensiero agente, sono convinto che soltanto tenendo fermo il proprio punto di vista di parte non si corra il rischio di essere inglobati nel sistema (pericolo rispetto al quale non bisogna mai abbassare la guardia), riuscendo così a modellare le proprie azioni tanto in un corteo di piazza o nei luoghi di conflitto, quanto in un’organizzazione partitica o nelle istituzioni (un agire pensante). Sono convinto che per essere efficaci nella lotta per la conquista di una società diversa da quella capitalista in un contesto democratico, sia necessario frequentare tanto la base sociale a cui si appartiene quanto i luoghi del potere in cui si prendono le decisioni. Concludo queste mie brevi riflessioni prendendo in prestito le parole del compagno Mario Tronti, che trovo particolarmente significative e con cui identifico il senso della mia militanza attiva nel PD “l’appartenenza alla tradizione rivoluzionaria ti assicura che il realismo non diventi opportunismo, e la frequentazione della tradizione conservatrice ti assicura che il sovversivismo non diventi velleitarismo. La passione non basta: sì, ci vuole anche il disincanto. Un quotidiano disincantamento pronto a ogni evenemenziale occasione di reincantamento. E cosi, sino alla fine, quando le Parche si decideranno a tagliare quello nostro, di filo.”

Lascia un commento